venerdì 14 febbraio 2014



Cisco Houston    hard traveling
 

Cisco Houston fu come una personificazione del viaggio, un’incarnazione stessa dello spostamento, non soltanto come ricerca di mezzi di sussistenza, ma anche come profonda ragione di vita. Hard traveling. Come il viaggiare inquieto di padri di famiglia travolti dagli effetti devastanti della Grande Depressione del 1930, dall’indigenza e dalla precarietà causate da quella calamità naturale chiamata Dust Bowl. Essa innescò un ferale processo di desertificazione che falcidiò le colture delle grandi pianure, assetò le terre e sconvolse di cicloni la vita di migliaia di agricoltori e allevatori. A causa della grave crisi economica americana, ben due milioni di persone fra il 1929 e il 1933 si misero in cammino, attraversando gli States da costa a costa, alla ricerca di lavori stagionali, vivendo una vita infelice in sordide baraccopoli, in accampamenti, lontani dagli affetti e dai paesi natali. Un quadro ben più squallido e crudo di quanto il romanticismo della letteratura e delle folk songs ci abbia raccontato.
Cisco Houston appartenne a questa lacera e infausta truppa. Dormì sui vagoni merci o sotto le stelle, fece autostop e percorse miglia e miglia di highways con le proprie gambe. Raccolse luppolo o patate per una manciata di dollari, conobbe nei campi di rabarbaro o fra gli aranceti altri diseredati della terra e lì lievitò la sua vocazione sindacale a tutela degli sfruttati.
Ma dove c’è dolore c’è pure poesia e se sai suonare una chitarra e hai la voce di un Apollo puoi diventare un cantastorie, un folksinger e in questa schiera Cisco fu tra i più grandi. Dichiarò di aver intrapreso almeno una trentina di viaggi per il paese e solo un altro compagno, armato di una micidiale chitarra, poteva vantarne altrettanti: era Woodrow Wilson Guthrie, dall’Oklahoma, ma tutti lo chiamavano Woody. 


Gilbert Vandie Houston, detto Gil, aveva mutato quel suo eccentrico appellativo da un piccolo centro della California, nel quale aveva sostato un poco durante le sue peregrinazioni. Cisco Grove, per l’esattezza, fra Reno, Nevada e Sacramento, un posto dimenticato da Dio, non reperibile sulle cartine geografiche, ma abitato attualmente da circa 160 anime. Gil era nato nel Delaware, il diciotto di agosto del 1918, ma gli costava ammetterlo. Preferiva spacciarsi come nativo della Virginia, terra di origine della madre e della nonna, le quali assiduamente gli cantavano traditionals di quei territori del Sud. Ne era orgoglioso Gil.
La sua famiglia si spostò in California quando lui aveva due anni e nel tempo a venire si distinse negli studi più per la memoria che per l’ingegno. Non si erano accorti che egli dissimulava un gravissimo difetto alla vista che lo costringeva quasi alla cecità. Gil era affetto da nistagmo, una malattia che obliterava la vista, salvando solo la visione periferica. Gli era impossibile tenere lo sguardo fisso e poteva leggere soltanto inclinando la testa o da un angolo obliquo, mentre le immagini si succedevano rapidamente davanti alle pupille. “Cieco come un pipistrello”, disse Moses Asch amico e leggendario produttore della Folkways. Ma Gil fu talmente abile a nascondere la sua malformazione che molti neppure se ne accorsero. A scuola egli maturò una passione violenta per il teatro, studiò recitazione e sostenne ruoli che più volte gli vennero affidati. Con la musica, la prosa lo volle per sempre sui palcoscenici, come un esigente padrone del cuore.
Nel 1932 il padre di Gil abbandonò la famiglia ed egli con i suoi si era già da un po’ trasferito a Bakersfield. Con il fratello maggiore Boy, si caricò di ogni responsabilità e non bastando al bisogno il misero sussidio di disoccupazione, i due fratelli si misero in viaggio, lavorando nei campi di ortaggi, ricevendo spesso come salario, latte o verdure. Davanti ai loro occhi scene di fame e di crudeltà: montagne di patate irrorate di kerosene, arance intrise di creosoto e la gente lì a guardare. Gil viaggia e viaggia, con un gruzzolo sotto la giacca da portare a casa. La famiglia tira avanti con queste provvidenza e con l’aiuto dei vicini.
Il treno sfreccia per le Cascade Mountains, si inoltra in anguste gallerie. Gil, ora divenuto Cisco, lavora in una compagnia teatrale ad Hollywood. Morde sempre il teatro. E’ il 1938 quando con l’amico Will Geer ascolta Guthrie e il show radiofonico alla KFVD. Incontrare Woody e diventarne intimo fu questione di poco. Cisco cantava da tenore, con una voce ben impostata, da attore. I critici non glielo perdoneranno. Poiché era giudicato conveniente nell’esercizio della folk song, un canto affumicato, diseguale, spontaneo ad ogni costo. Accompagnò vocalmente Woody nel suo programma e l’amico gli diede una mano economicamente. Girarono poi insieme i campi di lavoro degli emigranti. Geer pagava i conti e qualche volta Burl Ives si accompagnò a loro. Nel ‘39 a New York, Cisco fece l’imbonitore da strada per spettacoli teatrali e nel 1940 si imbarcò, alla vigilia del conflitto mondiale, nella marina mercantile. Gli scali valevano esibizioni con Woody e talvolta con gli Alma­nac Singers. 


Aveva già lavorato anche come cowboy, taglialegna, come attore in piccoli ruoli cinematografici ed era comparso in numerosi radio show. Guthrie iniziò le sue registrazioni con Moses Asch nel 1944 ed ebbe Cisco a lavorare con sé. Questi era un collaboratore tanto umile quanto recettivo e provetto nel flatpicking della sua chitarra. Si disse che il suo stile ricordava quello di Ives, ma Cisco fu sempre schivo e preoccupato di non essere un chitarrista di qualità. Si disinteressò delle critiche malevole di chi non lo inquadrava nel folk puro e proseguì per la sua strada.
L’occasione della vita sopravvenne per Cisco Houston nel 1954, quando dopo aver già precedentemente lavorato in televisione a Tucson, gli fu data la possibilità di gestire un personale radio show. Ciò capitò a Denver, Colorado, dove lo spettacolo andò in onda, il lunedì e il mercoledì, alle 18,15 pomeridiane. Crazy Heart, scritta insieme a Lewis Allen, arrivò in cima alle classifiche e la popolarità di Houston si estese rapidamente. A metà dell’estate il suo spettacolo sparì improvvisamente dalla circolazione.
Nel 1959 insieme a Marilyn Childs, Sonny Terry e Brownie McGhee, Houston fu invitato per un lungo tour in India. Vi passò dodici settimane e, al suo ritorno, diede ulteriori concerti in Inghilterra e Scozia.
Affermato artista, esauriti i tempi bui di braccatura ai rossi, Cisco Houston aveva realizzato un pugno di dischi per la Folkways e diverse registrazioni con Guthrie, Leadbelly ed altri. Incise anche per labels come Stinson, Vanguard e Disc, ma non si può dire che la sua produzione sia stata copiosa.
L’apogeo della sua fortuna di artista coincise con la parte terminale della sua vita. Agli inizi degli anni ‘60 ricevette numerose scritture per esibizioni in night-clubs, presenziò a festival estivi ed autunnali e visse una breve stagione di positivo contrappasso ricevendo quegli onori e quegli attestati di stima di cui una vita ben grama lo aveva privato. Durante l’estate del 1961 scoprì di avere un cancro allo stomaco e che il tempo che gli era dato da vivere risultava ben esiguo. Cisco non se ne curò troppo, più affannato dalle sorti del mondo e degli equilibri socio-politici che dalla propria sofferenza. Uomo gioviale, di grande sensibilità, continuò finche gli fu possibile ad esibirsi, commentando ironicamente le beffe del destino. “Il problema di tutta la mia vita è stato il mio tempismo, sempre cattivo”. 


Cisco lasciò serenamente la vita il 28 aprile 1961 all’età di quarantadue anni, a San Bernardino, California.
Cisco Houston cantò canzoni per i cowboys, per i boscaioli, per tutti i lavoratori, cantò le songs del sindacalista Joe Hill, canzoni di ferrovia e motivetti per bambini, canzoni d’amore e canzoni per gli hoboes che avevano sfondato le scarpe sulle strade e soprattutto cantò nella speranza di lasciare un mondo peggiore di quello che dopo la sua morte gli altri avrebbero edificato. 


“Molti ragazzi vengono da me e mi chiedono dei miei giorni sulla strada. Io cerco di dissuaderli dall’andarsene via in quel modo... Noi abbiamo fatto così in quei tempi, perché dovevamo farlo, non perché preferivamo farlo”.

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